Costituito a Roma il 1° dicembre 2004 (presso la caserma Francesco Baracca), il COFS (Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali), inizialmente, aveva l’obiettivo di coordinare le missioni dei due reparti di forze speciali della Difesa: il 9° rgt d’assalto Col Moschin dell’Esercito, inquadrato allora nella brigata paracadutisti Folgore, e il GOI della Marina Militare inquadrato nel Comando Subacquei e Incursori (COMSUBIN).

Sia il Col Moschin che il GOI avevano già operato in diverse occasioni insieme come in Somalia nel 1993 o per l’evacuazione di connazionali in Rwanda e, a novembre del 2004, per l’evacuazione dei connazionali in Costa d’Avorio. Inoltre i due reparti si conoscevano da decenni perché, dal dopoguerra, gli aspiranti incursori dell’esercito e della marina condividevano alcune fasi dell’iter formativo, come per esempio l’addestramento paracadutistico (svolto a Pisa presso il CAPAR) o quello subacqueo (presso il COMSUBIN, unico ente militare abilitato al rilascio del brevetto in questo settore). Senza contare che, sino alla fine degli anni ’70 alcuni dei sabotatori del Col Moschin frequentavano l’iter completo degli incursori di marina conseguendo la qualifica di “incursore navale” perché, sin dall’epoca, la componente acquatica rivestiva un’importanza rilevante anche per i sabotatori dell’Esercito che, da subito, si dotarono di una base dedicata a tale dominio scavandola e realizzandola con le proprie mani alla foce del fiume Arno.

Nel frattempo anche le altre due forze armate (Aeronautica Militare e Carabinieri) hanno cominciato ad investire nei reparti speciali.

L’Arma Azzurra decise di procedere alla riattivazione di un reparto speciale, denominato inizialmente RIAM (Reparto Incursori Aeronautica Militare) che traeva origine dagli Arditi Distruttori della Regia Aeronautica (ADRA). I carabinieri, elevati a rango di Forza Armata, individuarono il GIS (Gruppo d’Intervento Speciale) quale unità di forze speciali, provvedendo anche a qualificarne gli operatori con il brevetto incursore.

Nel 2005 entrambi i reparti vennero messi a disposizione del COFS per un eventuale impiego e, da quella data la Difesa disponeva di un reparto di Forze Speciali per ogni Forza Armata.

Quindi, i quattro reparti sopra citati, da un punto di vista dell’impiego, sarebbero stati d’ora in avanti sotto il comando del COFS che ne avrebbe curato il dispiegamento nelle missioni fuori area. Il COFS, infatti, è stato creato come Comando paritetico al COI (oggi “COVI”) con il quale si sarebbe coordinato, qualora necessario, per tutte quelle missioni che avrebbero contemplato l’impiego di forze e assetti convenzionali oltre all’impiego delle Forze Speciali.

Il COFS, neocostituito, fu da subito messo alla prova con 2 importanti impegni.

In primo luogo, nel 2006, con un’operazione reale, ovvero, l’operazione “Sarissa” che contemplava lo schieramento e l’impiego dell’ormai famosa Task Force 45 in Afghanistan.

Contestualmente, Il COFS era ingaggiato con un impegno nell’ambito dell’Alleanza. L’Italia, infatti, si era impegnata con la NATO a fornire il comando di componente Operazioni Speciali CJSOTF (Combined Joint Special Operations Task Force) nell’ambito delle NATO Response Forces.

Nel 2008, dopo un processo di validazione di circa un anno, il COFS è stato certificato dalla NATO quale Comando di Componente per le Operazioni Speciali nel quadro delle NRF (NATO Response Force). Il SOCC (Special Operations Component Command) è il Comando di Componente responsabile della concezione, pianificazione, organizzazione, condotta e coordinamento di OS (Operazioni Speciali) in uno o più teatri specifici. Tale articolazione risulta per sua natura interforze, inoltre, in contesti multinazionali, può assumere la connotazione Combined.

In ambito nazionale, il COFS è l’unico Comando deputato a pianificare organizzare e condurre Operazioni Speciali e, quindi, a costituire il framework (struttura) del SOCC, o della Combined Joint Special Operations Task Force (CJSOTF- struttura simile per funzioni ma più snella rispetto al SOCC) posto alle dirette dipendenze del COMINFOR, o comandante interforze (Joint Force Commander). In tale contesto, il comandante del SOCC (COMSOCC) detiene l’adeguato livello di autorità di comando delegato dal COMINFOR.

È bene ricordare che il comandante del COFS è anche consigliere del capo di stato maggiore della Difesa per tutti gli aspetti riguardanti le Operazioni Speciali. Coadiuva inoltre i vertici politico-militari nelle decisioni operative in questo specifico settore, si occupa dell’approvvigionamento dei materiali che dovranno essere adottati dai reparti speciali, sulla base di specifiche esigenze espresse dai reparti stessi.

Nel frattempo, i ranger del Monte Cervino erano stati elevati al rango di reggimento (4° rgt Ranger Monte Cervino), mentre dal 2000, il 185° rgt. artiglieria paracadutisti Folgore aveva avviato l’iter per la conversione in reggimento acquisizioni obiettivi. Già dal 2005, con un’iniziativa che a noi sembrava alquanto prematura, l’allora capo di stato maggiore dell’Esercito Giulio Fraticelli cercò di far rientrare questi reparti nell’ambito delle Forze Speciali. I processi di conversione di entrambe le unità erano, infatti, ancora all’inizio e, per quanto possiamo comprendere l’ambizione dell’Esercito, ci risulta difficile afferrare come, in soli pochi anni, si siano riusciti a trasformare in operatori delle Forze Speciali fanti alpini e artiglieri se non con corsi “sanatoria” e qualifiche precoci. Oltre alle nuove reclute bisognava, infatti, istruire chi per decenni aveva fatto il fante alpino e l’artigliere, benché paracadutisti, dovendo far cambiare mentalità e acquisire nuove complesse nozioni, oltre che esigere standard fisici e professionali ben più elevati, anche a chi spesso non si trovava più in tenera età, se non addirittura, ai tre quarti della carriera.

Questo processo fu affidato alla supervisione del Nucleo Iniziale di Formazione del Comando Forze per le Operazioni Speciali dell’Esercito che si insediò a Firenze, nella caserma Predieri a partire dai primi anni 2000 ed al cui comando non fu mai messo un ufficiale di provata esperienza nell’ambito delle Operazioni Speciali. Ci risulta, infatti, che tale struttura, che si evolse poi in Ufficio nell’ambito del Comando delle Forze Operative Terrestri a Verona, fu comandata dai colonnelli D’Apuzzo, Morena e Loiacono che non avevano mai avuto pregressi di carriera o esperienze, anche solo episodiche, nei reparti incursori. Anche lo staff di questo Nucleo era composto essenzialmente da paracadutisti che non avevano alcuna specifica esperienza né competenza della peculiare componente “Speciale”. Nel 2005, alla richiesta del generale Fraticelli il capo di stato maggiore della Difesa protempore, ammiraglio di Paola, rispose con un vibrante diniego assicurando comunque, come si è soliti fare in queste occasioni, la massima attenzione per l’iniziativa dell’Esercito.

Ma che cosa si intende per reparti speciali?

Negli ultimi anni, in ambito nazionale, il termine “speciale” si è prestato a numerose interpretazioni, ovvero molti reparti rivendicano una propria specificità ma questo non basta a collocarli nell’ambito delle Forze Speciali in senso stretto.

L’opinione pubblica, spesso, recepisce in modo fuorviante la definizione corretta di reparto speciale, attribuendo ad esso connotazioni esclusivamente di “fisicità” (come spesso si vede nei video di alcuni paesi orientali, dove appaiono militari delle FS impegnati a rompere con le mani e con i piedi pile di tavolette con improbabili e altrettanto sceniche mosse di karatè).

Gli operatori delle Forze Speciali devono poter assicurare capacità di inserimento in contesti non permissivi (attraverso le tre dimensioni), così da poter svolgere compiti di sabotaggio, colpi di mano, cattura di personalità importanti, interdizione d’area nonché operazioni di liberazione ostaggi.

In particolare le OS tradizionali in ambito NATO si dividono in DA (Direct Actions), SR (Special Reconnaisance) e MA (Military Assistance), quest’ultima non necessariamente appannaggio delle sole FS. In Italia questi 3 compiti sono integrati da 4 missioni di esclusivo appannaggio nazionale approvate dal capo di SMD.

Le OS, inoltre hanno la caratteristica di essere condotte in profondità nel dispositivo avversario (comunque in un contesto non permissivo), in isolamento ed in autonomia, di norma in condizioni occulte o discrete. In pratica, si tratta di operazioni che richiedono forze di piccola entità con un elevatissimo grado di professionalità, di autosufficienza e di iniziativa.

Da non trascurare l’elemento fondamentale che necessariamente deve caratterizzare le unità del comparto, ovvero la capacità di concepire, pianificare, condurre e coordinare quei compiti previsti dall’Alleanza e di esclusivo appannaggio nazionale che insieme costituiscono l’orizzonte entro il quale si sviluppano le Operazioni Speciali.

Chiaramente, oltre alla capacità di pianificazione si richiede anche la capacità di sostegno di tali attività in totale autonomia. Considerata la sensibilità e la discrezione delle OS, infatti, i reparti non possono dipendere da altri enti per i materiali e gli equipaggiamenti necessari all’impiego. Proprio per questo, ad esempio, sia il 9° reggimento che il GOI sono dotati di un proprio parco paracadute che gestiscono in autonomia tramite una sala ripiegamento interna al reparto. Lo stesso dicasi per le apparecchiature subacquee che i due reparti hanno la capacità di mantenere, ricaricare e riparare impiegando, in totale autonomia, equipaggiamenti e strutture anche particolarmente sofisticate, innovative e costose.

In ultimo, per quanto non contemplato da nessuna dottrina o normativa, introduciamo una caratteristica che a nostro avviso deve necessariamente caratterizzare questi reparti, ovvero, l’aspetto CROMOSOMICO. Come recita una delle verità delle Forze Speciali, questi reparti non si creano all’ultimo momento. E neanche si possono istituire con semplice “decreto” o cambiando nome “tout court” ad altre unità con pregressi e tradizioni completamente diverse.

Questi reparti sono tutti caratterizzati da un particolare GENOMA che si è configurato con la storia, con le operazioni condotte, con gli uomini morti in addestramento, con gli esperimenti andati male, con il particolare senso di cameratismo e di appartenenza che con i decenni si è creato fra chi, da sempre, ha operato in modo non convenzionale. Che si tratti delle motosiluranti del comandante Rizzo e degli Arditi del maggiore Messe, questi reparti affondano le loro radici nella storia discendendo direttamente, e non per tardiva e originale decisione di uno stato maggiore, da chi più di cento anni fa si è cimentato, primo nella storia, in quello che da molti è considerata l’origine delle Operazioni Speciali.

Alcuni cenni sulla (ri)nascita e sulle missioni delle Forze Speciali.

Gli incursori dell’Esercito nacquero nel 1953, allorquando a Viterbo venne costituito il Plotone Speciale. Il Trattato di Pace del 1947 vietava alle Forze Armate la costituzione di reparti speciali tuttavia, con l’inizio della Guerra Fredda e l’ingresso del nostro Paese nell’Alleanza Atlantica questi vincoli divennero meno rigidi.

Gli inizi non furono certo facili in quanto, pur riconoscendo l’importanza delle operazioni speciali, mancavano gli equipaggiamenti e le dottrine appropriate.

Quando si riuscì a formare una compagnia operativa, venne articolata in tre componenti:

  • Industria
  • Acque Interne
  • Montagna

L’Industria doveva occuparsi del sabotaggio di complessi industriali. La Acque Interne doveva operare contro ponti e nelle acque interne dell’Adriatico settentrionale. La Montagna vedeva il suo campo d’impiego sulle Alpi Orientali.

È bene ricordare che allora i nemici erano la Jugoslavia di Tito e le forze del Patto di Varsavia.

Le primissime esercitazioni vedevano gli incursori salpare dall’idroscalo del Lido di Venezia a bordo di unità sottili della Marina Militare, dopo di che gli incursori mettevano in mare le canoe al largo di Trieste e pagaiavano fino a terra, dove simulavano un’azione per poi ritornare alle imbarcazioni. Già all’epoca la cellula base degli incursori era la coppia. Ovviamente l’intero reparto era avvolto da una cortina di riservatezza, in quanto i reparti speciali erano considerati una preziosa risorsa per ogni singolo paese.

Il primo impiego operativo avvenne per contrastare il terrorismo altoatesino nel 1966, svolgendo compiti di pattugliamento in punti strategici, come la ferrovia del Brennero e attività di sorveglianza di alta quota.

Nel 1967 i primi eroi del reparto sabotatori caddero proprio a Cima Vallona a seguito di un attacco dinamitardo dei terroristi separatisti. Erano il sottotenente Mario di Lecce e il sergente Olivo Dordi, primi caduti in operazioni del dopoguerra nell’ambito di un’attività di controterrorismo in cui il reparto sabotatori da subito è stato impiegato (insieme ad aliquote dei carabinieri paracadutisti).

Nel 1975, nel quadro della riforma dell’Esercito, il battaglione sabotatori prese la denominazione di 9° battaglione paracadutisti d’assalto Col Moschin.

Negli anni ’80 sono cominciate le missioni all’estero, prima in Libano (1982-84), con le missioni Libano 1 e Libano 2; nel 1991 nel Kurdistan irakeno, dove gli incursori effettuavano prolungate operazioni insieme alle Special Forces americane, davanti agli avamposti delle forze di Saddam Hussein; in Somalia (operazione Ibis, 1992-94) gli operatori del Col Moschin svolsero un ruolo importante, compiendo una vasta gamma di operazioni speciali (e non solo quelle).

Il 2 luglio 1993 rimase ucciso in combattimento il sergente maggiore incursore Stefano Paolicchi, terzo membro delle forze speciali a cadere in combattimento dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Insieme agli altri incursori, Paolicchi era impegnato a neutralizzare i centri di fuoco intorno al checkpoint Pasta a Mogadiscio.

Nello stesso periodo della missione in Somalia, gli incursori del Nono – insieme agli operatori del GOI della Marina Militare – hanno dovuto far fronte anche alla difficilissima missione Ippocampo, ovvero l’evacuazione dal Ruanda di centinaia di nostri connazionali, bloccati nel Paese sconvolto dalla guerra civile (il termine guerra tribale sarebbe più opportuno) in cui migliaia di persone vennero letteralmente fatte a pezzi.

Intanto iniziava un’altra operazione di peacekeeping, questa volta nei Balcani. Il Col Moschin era alla testa del contingente italiano (su base 8ᵃ brigata bersaglieri Garibaldi) che entrava nel 1995 a Sarajevo, capitale della Bosnia, distrutta dall’artiglieria serba. Il contesto tattico era meno pericoloso rispetto a quello somalo, tuttavia le milizie locali erano meglio organizzate e armate (senza contare la minaccia costituita dal munizionamento all’uranio impoverito, largamente utilizzato nei bombardamenti contro le forze serbe).

E comunque il Nono svolge operazioni speciali a tutti gli effetti, prima occupandosi della separazione inter-entità nel quartiere di Gorbavita a Sarajevo e poi trasferendo le sue attività principali a Pale dove era situato il governo della repubblica Serbska e dove viveva Karadzich.

Nel 1997 scoppia l’emergenza albanese, il Nono con il GOI contribuiscono alle operazioni di evacuazione di italiani e stranieri dall’infuocata Valona. Successivamente prendono parte alla missione internazionale Alba, a guida italiana, per la stabilizzazione dell’Albania.

Le operazioni di evacuazione di civili (NEO, Non-combatant Evacuation Operations) da paesi sconvolti da guerre civili, in questi ultimi trent’anni, dalla Somalia allo Yemen fino alla Libia, sono state condotte da piccoli distaccamenti del Nono (talvolta insieme agli incursori del GOI) i quali hanno garantito una indispensabile cornice di sicurezza ai velivoli incaricati di evacuare cittadini italiani e di altre nazionalità, fornendo anche protezione alle sedi diplomatiche.

Nelle evacuazioni più complesse i distaccamenti operativi incursori sono materialmente dovuti andare a recuperare i connazionali in giro per il paese o nei centri di raccolta previsti dal piano Ippocampo, spesso in contesti non permissivi e muovendosi sotto l’incombente minaccia sia dei ribelli che delle forze governative. A volte hanno dovuto utilizzare mezzi e equipaggiamenti “di fortuna” e adattarsi a situazioni assolutamente imprevedibili. In queste situazioni la capacità di capire e interpretare l’ambiente operativo è stata fondamentale considerato lo squilibrato rapporto di forze messo in campo e la scarsità di mezzi e di supporto su cui gli incursori potevano contare.

Inoltre, vi sono stati periodi di impegno continuo in più teatri operativi, come nel 2003-2006, con le missioni in Iraq (Antica Babilonia) e Afghanistan, le quali hanno richiesto un impegno particolare visto anche il numero limitato di incursori. Inoltre, sempre dal 2006 al 2007 il 9° ha dato vita ad uno Special Operations Task Group anche nell’ambito della missione internazionale in Libano.

In sintesi, nel 2006 il nono reggimento forniva contemporaneamente il framework di tre Special Operations Task Groups, uno impiegato in Iraq, nell’ambito dell’operazione Antica Babilonia, uno in Afghanistan – la famosa Task Force 45 – e uno in Libano nell’ambito della missione internazionale ivi istituita.

Gli incursori del Nono arrivarono in Afghanistan nel dicembre del 2001, allorquando la missione italiana di ISAF era ancora confinata nella capitale Kabul. Nel 2003 il governo Berlusconi decise di inviare un contingente nell’ambito di Enduring Freedom (Nibbio 1 e Nibbio 2), destinato all’area di Khowst, vicino al confine con il Pakistan. Gli incursori del Col Moschin operarono congiuntamente con il GOI, sviluppando e mettendo a punto le prime operazioni in un contesto ostile.

Le forze speciali di Nibbio si trovarono a operare in un contesto ambientale assai difficile, con una viabilità stradale a dir poco problematica e un avversario che poteva contare su basi relativamente sicure. I distaccamenti operativi, composti da incursori del Nono e del GOI, compirono missioni anche a ridosso del confine pakistano, utilizzando velivoli ad ala rotante nazionali e americani, in quanto a Khowst vi era una base delle special forces (Berretti Verdi).

Come accennato in precedenza la missione ISAF, inizialmente, si concentrava esclusivamente nell’area di Kabul, mentre nel resto del Paese operava Enduring Freedom.

Allorquando la missione ISAF venne estesa a tutto l’Afghanistan – suddividendo il territorio in Regional Commands – Italiani e Britannici crearono un Comando delle Forze Speciali congiunto: il SOCCE (Special Operations Command and Control Element – che poi evolverà in Special Operations Component Command) che all’inizio era composto dalla Task Force 42 (britannica) e dalla Task Force 45 (italiana). Tutte le operazioni speciali condotte in teatro venivano concepite, pianificate e condotte da tale Comando, a cui l’Italia ha dato origine, e che poi, come detto, si è evoluto nel Nato Special Operations Command inglobando le Forze Speciali anche americane e di molte altre nazioni. Alle dipendenze di questo Comando si trovavano le Task Forces di Forze Speciali che non dipendevano in alcun modo dai Regional Commands che, invece, conducevano la battaglia convenzionale. È evidente che tra la struttura speciale e quella convenzionale esistevano meccanismi di coordinamento ma non vi è mai stata mai commistione di linee di comando, come peraltro sarebbe deleterio crearne.

La creazione della TF-45 era già stata decisa dal governo Berlusconi nel 2006. Le elezioni politiche nello stesso anno videro l’affermazione di una maggioranza parlamentare di centro-sinistra che comunque portò avanti l’organizzazione e lo schieramento dell’unità in teatro, pur mantenendone il riserbo circa le attività. La discrezione sulle operazioni e sulla stessa esistenza della Task Force 45, era infatti assoluta! L’unità si trovava sotto linea di comando NATO tramite Special Forces Command (non aveva alcun legame di comando con il Regional Command West o il Regional Command Capital dai quali dipendevano tutte le unità convenzionali italiane) e riportava direttamente al COFS.

Solo successivamente si scoprì la natura estremamente cinetica delle attività della Task Force 45 che, insieme alle altre unità di Forze Speciali dell’Alleanza, aveva il compito principale di neutralizzare la leadership dell’insurrezione.

In base alla disponibilità del personale, la TF-45 venne articolata su tre componenti:

Il Comando a Herat, insieme alla componente logistica.

Task Group Alpha con sede a Herat composto per metà da personale del Nono, mentre l’altra metà era formata da elementi del GOI, dei GIS e del 17° stormo dell’Aeronautica Militare.

Task Group Bravo, con sede a Farah, interamente composto da incursori del Nono.

La TF-45 si è avvalsa spesso, in operazioni, del sostegno di unità del 4° rgt Ranger Monte Cervino che svolgeva l’importantissimo compito di supporto nell’effettuazione di saturazione, di isolamento degli obiettivi, di occupazione preventiva di posizioni e di supporto di fuoco.

I nostri incursori, in Afghanistan, hanno condotto principalmente operazioni di individuazione ed eliminazione di gruppi di miliziani ostili (insurgents) focalizzando la propria attenzione sulla leadership e sulle figure di spicco dell’insurrezione. Immediatamente dopo la cattura o l’eliminazione di un obiettivo poteva rendersi necessario l’intervento di un reparto più consistente, armato in modo pesante, in grado di cinturare la zona e consentire l’esfiltrazione degli incursori in una cornice di sicurezza. Questa infatti dovrebbe essere la ragion d’essere di un reparto come il Monte Cervino.

In teatro era presente anche il 185° RRAO, non inserito nella TF-45, in quanto gli operatori delle forze speciali già possedevano capacità autonome di designazione degli obiettivi ai vettori aerei (FAC, Forward Air Controller) e, ovviamente, erano in grado di condurre operazioni di ricognizione in profondità. Gli acquisitori vennero inquadrati nella Task Force Victor, la cui attività dipendeva dal Regional Command West ed era inserita nella filiera di comando convenzionale che, come abbiamo già precedentemente descritto, era distinta e separata da quella “speciale”. Inoltre la TF Victor non aveva alcun collegamento, contatto o dialogo con il COFS proprio perché faceva riferimento al settore convenzionale delle operazioni.

In questa breve (e incompleta) carrellata sull’impiego delle forze speciali italiane in vari teatri operativi, si evince una forte componente joint, poi formalizzata e ulteriormente accentuata con la creazione, nel 2004, del COFS.

Un altro fattore essenziale che deve emergere è l’importanza della componente di supporto alle operazioni speciali, senza la quale non sarebbe possibile condurre alcuna missione. In Afghanistan, ad esempio, il supporto elicotteristico (fornito dal 3° REOS di Viterbo) è stato fondamentale, grazie anche all’introduzione di vettori come il CH-47F e l’UH-90.

Per quanto concerne la creazione del COMFOSE (Comando Forze Speciali dell’Esercito) permangono non poche perplessità, in quanto si è creato un Comando che non ha alcun impiego operativo replicando una struttura del tutto simile alle altre brigate dell’Esercito. La struttura ternaria delle brigate convenzionali, ovvero tre reggimenti di arma base, uno di supporto al combattimento e uno che si occupa essenzialmente di logistica, sembra aver ispirato chi, con poca fantasia, ha progettato il COMFOSE conferendogli una “linea” essenzialmente convenzionale. Sarebbe invece molto più interessante, a nostro parere, concentrare in un reggimento, che potrebbe assumere la connotazione di raggruppamento, tutta la componente operativa Forze Speciali e introdurre all’interno della struttura sovraordinata, ovvero quello che ora si chiama COMFOSE, una importante, sostanziale e pesante componente di supporto dedicata che includa supporto di volo, di trasmissioni, di guerra elettronica, di Intelligence Surveillance & Reconnaissance completando il tutto con un vero Reparto Innovazione, Ricerca e Sviluppo che dovrebbe costituire il motore del progresso delle Forze Speciali italiane.

Ma su queste nostre “balzane” idee vale la pena spendere qualche riga in più in un prossimo articolo…

Articolo di Tiziano Ciocchetti su Difesaonline.it